Django (Jamie Foxx) è uno schiavo nero e nel Texas del 1858, vale meno di niente. Quando la sua sorte sembra ormai segnata dalla prigionia e dalle catene, il Dottor King Shultz (Christoph Waltz) lo libererà. Shultz è un ex dentista tedesco che nel nuovo continente sopravvive facendo il cacciatore di taglie. La sua prossima taglia, i fratelli Brittle, sono una vecchia conoscenza di Django e sarà proprio lui la chiave della loro cattura. Dopo essersi intascata la taglia, i due decidono di fare coppia e di lavorare insieme fino alla fine dell’inverno, ma la missione di Django, adesso che è un uomo libero, è quella di trovare la propria moglie: Hildy (Kerry Washington).Separati dopo un tentativo di fuga dalla piantagione in cui lei e Django si sono conosciuti ed innamorati, la donna è stata venduta al terribile possidente Calvin Candie (Leonardo Di Caprio): spietato negriero ed appassionato di incontri clandestini di “mandingo”, schiavi neri allevati per il combattimento all’ultimo sangue.Shultz utilizzerà proprio questa debolezza di Candie per salvare la donna. I due, spacciandosi per due negrieri in cerca di un campione mandingo da acquistare, riescono a ingraziarsi Candie ed a convincerlo anche ad includere nell’affare anche la liberazione di Hildy.Ma proprio quando sembra fatta la situazione precipiterà.Stephen (Samuel L. Jackson) il maggiordomo nero di Candie scoprirà la messa in scena e impedirà al pistolero di liberare l’amata secondo il piano.A Candieland scenderà la notte e nel silenzio saranno le pistole a ruggire.
Che Quentin Tarantino sia cresciuto a “spaghetti” western e poliziotteschi italiani è fin troppo noto. E’ altrettanto noto che i suoi film contengano diversi elementi stilistici e chiari riferimenti ai film di genere di casa nostra e che ciò sia il risultato di un’alchimia collaudata, un vero e proprio marchio di fabbrica. Djnago Unchained non sfugge a questa logica realizzativa e forse né è l’esempio più
rappresentativo (e scontato). Autoreferenziale, citazionista, celebrativo, tutti aggettivi che si sposano perfettamente con il film di Tarantino e la sequenza iniziale è il manifesto del film: titoli porpora sgranati che ricordano quelli utilizzati nei vecchi polpettoni western degli anni sessanta (vedi ad esempio Appuntamento per una vendetta del 1969), le ossessive zoomate sul cordone di schiavi che percorre il deserto in catene e come sottofondo l’originale Django, canzoneretrò, che accompagnava già il pistolero “italiano”. Django Unchained non è un remake o almeno non è un remake del film di Sergio Corbucci del 1966. A parte il vezzo stilistico di giocare con il cognome del protagonista della pellicola italiana, il mitico Franco Nero (il Django di Tarantino è di colore), i due Django si muovono su linee narrative distinte pur conservando il motore centrale che anima le rispettive trame: la vendetta. Esiste sicuramente una certa connotazione seriale che ci porterebbe a pensare che, comunque, siamo di fronte ad un mix di operazioni di riscrittura filmica ovvero: remake del personaggio e ad un remake seriale insieme(leggi per maggiore chiarezza il precedente articolo Remake, remakers e reboot: il cinema con il replay). Mi preme solleticarvi, a tal proposito, con una curiosità prettamente di redazione: esiste infatti ad oggi un corposo filone di spaghetti western che hanno recitano nel titolo la parola Django o che ripropongono lo stesso personaggio in diverse salse, persino orientale (Sukiyaki Western Django del 2007 di Takashi Miike con addirittura Quentin Tarantino, special guest star, nel ruolo di Django). Nel personaggio di Jamie Foxx sicuramente coesiste un’intera filmografia di genere anche se Tarantino, con una forte presa di coscienza e di carattere, trasforma in vendicatore chi, in quei film, è di solito la vittima, il debole. Django costituisce un altro punto di osservazione all’orrore della schiavitù in America oltre a quello di pellicole di esplicita (e dichiarata) denuncia politica, storica e sociale (come ad esempio quelle di Spielberg: Il Colore Viola, Shindler’s List ed il recentissimo Lincoln). Il Dottor King Shultz, interpretato dall’attore tedesco Christopher Waltz, diventa un efficace strumento narrativo nelle mani di Tarantino proprio per sviluppare quest’ultimo tema. Il ribrezzo per la schiavitù, in Shultz, assume la connotazione di un fastidio quasi fisico e le immagini delle torture e delle ingiustizie di cui è testimone diventano un’ossessiva sevizia mentale. La repulsione e lo sdegno verso Candie si tradurranno in un’azione avventata e imprevista che comprometterà il piano di liberazione ideato con il socio Django. Un’interpretazione, quella di Waltz, premiata dall’Academy con l’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista. Letto così, cioè come pellicola spiccatamente di denuncia sociale, Django Unchained si affianca al precedente film di Tarantino, Bastardi Senza Gloria, secondo una logica ineccepibile. Alcuni momenti sono emblematici: un drappello di schiavisti del Ku Klux Klan che interrompono la ricerca di Django e Shultz per discutere animatamente sull’l’utilità dei cappucci e sulla loro pessima fattura ad opera della moglie di uno degli affiliati. L’incontro fra Jamie Fox e Franco Nero (che ha un cameo nel film) sull’origine del nome del protagonista in cui viene recitata la battuta, ormai diventata cult, “la D è muta”!
Il monologo di Leonardo Di Caprio che spiega l’inferiorità degli schiavi neri mediante la frenologia (scopriremo in seguito che, per un diabolico contrappasso, è il maggiordomo nero interpretato da Samuel L. Jackson ad avere il controllo della tenuta Candie). La sparatoria (infinita) nell’androne di casa Candie. Tarantino stesso (che nel film interpreta uno schiavista) che salta letteralmente in aria a causa di un candelotto di dinamite dimenticato nella bisaccia (come a voler dire: “Stavolta ho fatto il botto!”). La fine, se vogliamo tragicomica, della sorella di Mr Candie letteralmente sbalzata via da una pallottola del protagonista con una battuta quasi da fumettaccio (“Di ciao a Mrs Candie…”). Una sceneggiatura che ha meritato, ieri notte, l’Oscar. Django Unchaine, però, resta (a mio personalissimo parere) una straordinaria opera incompiuta che implode, nel finale, su se stessa.
Non basta lo schizzo di sangue sulle piante di cotone in uno dei molti massacri del film o lo schiocco delle frustate misto a urla di disperazione per sancire l’intento di denuncia. L’escalation di violenza di cui è vittima il protagonista, porta lo spettatore a desiderare indubbiamente che Django ottenga giustizia e che compia la sua vendetta ma quando casa Candie è ormai in fiamme, il nostro eroe, si allontana vestito da damerino con un grande sorriso sul volto e cavalcando un ronzino che riesce a far “danzare” (e non è un modo di dire) sulle note di Lo chiamavano Trinità. Una macchietta che diventa quasi una nota stonata per un regista che nei suoi film, comunque, chiude sempre il cerchio. Si potrebbe parlare di una tarantinata eppure è un film che graffia lo schermo e che qualche artigliata riesce ad assestarla allo stomaco dello spettatore. Quesito finale: film da vedere a scatola chiusa?
Assolutamente si… è pur sempre Tarantino.