“Sono belli i trenini che facciamo alle nostre feste, sono i più belli di tutta Roma. Sono belli perché non vanno da nessuna parte!”

                                                                                                                                                                                                                                                                                                            (Gep Gambardella)

 

Il ritorno di queslagrandebellezza_locta rubrica sulle pagine elettroniche del Najs, dopo qualche mese, di meditato (o forse pigro) silenzio non poteva che essere dedicato a La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Un lavoro facile, potranno pensare i più, un rapido elogio e qualche battuta ben impostata ed il gioco è fatto. Del resto ha vinto l’Oscar come “Migliore Film in Lingua Straniera” 2014 , di cosa (ancora) dovremmo discutere? Di cosa dovremmo parlare?

E’ la decadenza italiana della Seconda Repubblica impressa su pellicola e consegnata ai posteri, è la spada di Damocle di celluloide che pende inesorabile sull’iniquità della nostra penisola, sul fasto dei suoi castelli, sulle liason delle sue dame il più delle volte non in età legale, sull’inarrestabile emorragia dei suoi dobloni d’oro e sulle gesta ero…iche del suo “Cavaliere”.

Il problema che ho avuto con La Grande Bellezza è quello che si ha con la classica patata bollente.

Parlare di questo film tentando di mantenere la più sincera neutralità analitica è un’impresa non da poco. Basta un attimo per inciampare in uno squallido (e facile) leccaculismo oppure impantanarsi nelle sabbie mobili della critica sterile e gratuita.

Ma torniamo al cinema.

Dal punto di vista prettamente tecnico, sul piano della forma, La Grande Bellezza è un “prodotto” ineccepibile. La costruzione delle inquadrature, i dolly, le carrellate (lente ed infinite), la fotografia accurata sempre senza sbavature: ogni elemento è ben dosato, ogni cosa è  al suo posto come uno scaffale ordinato in maniera maniacale. I movimenti di macchina sono calibrati e delicati, tanto da farci entrare negli straordinari saloni dei palazzotti romani di soppiatto, in punta di piedi. Le scene corali sono progettate con grandissima attenzione, il grottesco delle immagini proposte da Sorrentino è vivido. Nel suo circo degli orrori, il regista, riesce a concedersi lo spazio per qualche allegoria visiva ed è così infatti che il soffitto di una camera da letto diventa una porzione di mare.

Roba, insomma, da mandare la giuria dell’Academy Awards in brodo di giuggiole.

Sul piano della sostanza La Grande Bellezza presenta luci ed ombre.

Sorrentino ci conduce per mano alla (ri)scoperta di un bestiario “felliniano” (“sta’fauna” come la definisce il protagonista) che popola i super attici di una Roma deserta e desolata.

Una lussuosa cornice completamente immobile raccontata solo all’alba o al crepuscolo. La_grande_bellezza_2

Una città in cui l’anima sacra è in perenne lotta con quella profana.Una Roma nelle cui notti riecheggiano le risa e gli schiamazzi della sua borghesia festaiola che trova, nello scrittore fallito, Gep Gambardella (un Tony Servillo dalla recitazione etilica) il suo massimo guru. Una città (e l’Italia tutta) che si trascina nel peso della sua caducità come un immenso cetaceo, morente, arenato su una spiaggia.

Purtroppo però, fin qui, nulla di nuovo sotto il sole.

La paternità felliniana è innegabile perché il girotondo di personaggi grotteschi è troppo ostentato: nani, lanciatori di coltelli, psicotiche pittrici-bambine, artisti che si fracassano il cranio contro acquedotti romani in rovina, esorcisti con la passione per le ricette di cucina e persino una giraffa, come se lo zoo non fosse già al completo. Per spezzare questo ciclone di feticci, che dopo un po’ risulta anche disorientante, Sorrentino utilizza per qualche secondo la “Costa Concordia” parzialmente inabissata in modo da fornire allo spettatore delle coordinate spazio-temporali precise: “Niente panico quella che stai vedendo sullo schermo è l’Italia”.

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Il film rovista distrattamente nel guazzabuglio torbido della cronaca nostrana, quella stessa cronaca che alimenta, da qualche tempo, il generale malcontento nazional-popolare. Quella stessa cronaca che ha impresso a fuoco nel cranio dell’italiano medio immagini di festini orgiastici finiti nella nota spese di qualche politico.

Il film di Sorrentino però centra perfettamente un punto cruciale: noi italiani siamo gli eredi di una “Grande Bellezza” che sicuramente non meritiamo o che, quanto meno, sappiamo di non meritare.

Non riusciamo più ad assaporarne la magnificenza, ne siamo assuefatti ed in generale siamo ormai quasi immuni ad ogni meraviglia. Non abbiamo più quella “sensibilità” che Gep Gambardella apostrofa quasi come una condanna.Mentre gli italiani si interrogano sul senso di questa pellicola ed il tam-tam sui social network diventa assordante il nostro regista (in un recente spot televisivo) procede indisturbato nelle strade di Los Angeles a bordo della sua mini utilitaria blu di una casa automobilistica “tutta” italiana (ma dall’Amministratore Delegato canadese) facendosi, simpaticamente, il verso da solo.

Lui può e, con un Oscar in tasca, lo farei pure io.