Io sono niente: senza vita, senza anima, odiato e temuto. Sono morto per tutta l’umanità. Ascoltatemi: io sono il mostro che gli uomini che respirano bramerebbero uccidere. Io sono Dracula!”

(cit. dal film  Dracula di Barm Stoker)

 

Dracula

Lugubri dandy vestiti di nero si aggiravano negli umidi vicoli di gotiche città europee in cerca di giugulari da svuotare ma adesso, mi duole ammetterlo, sembrano definitivamente estinti.

Il Dracula (1897) di Bram Stoker o l’originario Vampiro (1819) di Polidori erano la trasposizione orrorifica di ciò che rappresentava la classe economica dominante, dell’epoca, all’alba della Seconda Rivoluzione Industriale: uno stuolo di imbellettati parassiti succhiasangue.

Il fascino oscuro di queste creature della notte, la cui origine si perde nel folkore dell’Europa dell’Est, non poteva che innescare un inevitabile processo di riscrittura infinita e di adattamenti, cosa che capita a quelle che definiremmo delle vere e proprie icone.

Potremmo parlare di infiniti “remake del personaggio” per citare e riprendere dalla maglia lasciata (volontariamente) ancora aperta dal primo articolo sui remake e sui cui ritorneremo.

Cinema e letteratura hanno ricontestualizzato i vampiri in molteplici ambientazioni e situazioni narrative, carta stampata e celluloide si sono mescolati all’infinito.

 

Stilare una specie di elenco completo di titoli sarebbe un complesso lavoro filologico, quasi archeologico, dal quale otterremmo una lista sempre incompleta, a questo proposito mi sembra più interessante, tracciare un piccolo percorso ideale fra quelle che considero le “pietre miliari” del genere da cui costruire una sorta di evoluzione.

tumblr_lkfizfM5hd1qh2z2xo1_400Cito, prima di iniziare e per “correttezza morale”, Nosferatu – Il vampiro (1922) di Murnau, pellicola, che non ho mai (ingenuamente, lo ammetto) apprezzato fino in fondo, ma dotata di quella straordinaria potenza visionaria che ha dettato le regole di realizzazione dell’horror ed il Dracula (1931) di Tom Browning con l’immortale Bela Lugosi, per molti anni, l’unico ed indiscusso vampiro di celluloide.

Il mio approccio con il genere è cominciato, per ovvie ragioni di età anagrafica, con Tom Holland ed il suo Ammazzavampiri (1985). Devo ammettere che il remake con Colin Farrel, Fright Night (2011) mi ha quasi indisposto.
Il cinema anche in questo caso diventa autoreferenziale: chi saprebbe uccidere un vampiro “vero” meglio  di una persona, di un attore, che li ha uccisi in decine di film? La coppia ricorda un po’ Marty e Doc di Ritorno al Futuro e tale contaminazione potrebbe non essere del tutto occasionale dato che i due film escono lo stesso anno.  Il film di Holland trasuda anni ottanta da ogni fotogramma pur rispettando perfettamente il cliché del vampiro: sensuale, oscuro e spietato. I suoi antagonisti, un ragazzo appassionato di film horror ed una vecchia gloria del cinema che ha da sempre interpretato “l’ammazzavampiri”, sono l’unica speranza di una cittadina completamente ignara.

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Negli anni ottanta l’horror esplode con un frenetico susseguirsi di pellicole, infatti, appena due anni dopo la pellicola di Holland, Katherin Bighelow gira Il Buio si Avvicina (1987) in cui un gruppo di vampiri percorre, dentro un furgone dai vetri oscurati, gli Stati Uniti in una frenetica ed eterna caccia di prede.

Homer, il ragazzino vampiro, che cerca di trasformare la sorella del protagonista, della sua stessa età, per avere una compagna è uno dei punti di forza del film: struggente, straziante. Un elemento che sarà ripreso in Intervista con il Vampiro (1994) di Neil Jordan tratto dal romanzo di Anne Rice (una specialista del genere). Nello stesso anno Joel Shumacher gira Ragazzi Perduti in cui un gruppo di vampiri teeneger, guidati da un giovanissimo Kiefer Sutherland, tedia i giovani della tranquilla provincia americana.

Nel 1992 sale in cattedra Francis Ford Coppola che sforna, il meraviglioso, Bram Stoker’s Dracula. Già dal titolo il cineasta italo-americano prende, volutamente, distanza dal filone vampiresco degli anni ’80 degenerato nella macchietta per ricongiungersi con il libro originale (pur con qualche libertà stilistica) ed al film del

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1931. Coppola ripercorre la storia di un crociato transilvano (molto simile al conte del romanzo)  che rinnega Dio e la Chiesa per aver condannato il suicidio della sua sposa. Tale atto lo trasforma in un vampiro. Diversi anni dopo riscopre in Mina Harker, moglie di Jonathan, l’avvocato inglese che sta curando per lui l’acquisto di diverse case in Inghilterra, la reincarnazione della sua sposa. Deciso a possederla, il conte si scontrerà sul suolo inglese con il Dottor Van Helsing, scienziato che possiede una conoscenza quasi enciclopedica di misticismo, mostri e folklore.

Il film è rigorosamente in costume ed è l’ultimo film d’autore in cui gli effetti visivi sono fotografici, ovvero realizzati direttamente sulla pellicola senza l’ausilio della computer grafica ed una struggente storia d’amore e sangue.

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Chiudo il mio cerchio ideale con John Carpenter e il suo Vampires del 1998, horror dal sapore western (come il Dal tramonto all’alba della coppia Tarantino/Rodriguez del 1996) ricavato da un libraccio pulp di uno sconosciuto autore americano. Nel film di Carpenter il primo vampiro della storia è un prete blasfemo che, divenuto un potentissimo vampiro, viaggia attraverso il New Mexico in cerca di un’antica reliquia che lo renderebbe immune alla luce solare. Sulle sue tracce il Vaticano sguinzaglia Jack Crow uno spietato cacciatore di mostri: Sceriffo contro Bandito.

Vampires è una straordinaria ibridazione in cui sequenze prettamente truculente distolgono, per un attimo, l’attenzione dello spettatore da inquadrature che sono un chiaro omaggio al cinema di Sergio Leone.

Interrogarsi sul fascino che questo filone possa suscitare sulla platea di lettori, spettatori o estimat

ori è legittimo ma, inevitabilmente, banale.

L’occulto, il “dark”, il gotico o la sensualità macabra sono tutti temi riconducibili ad un preciso senso estetico che, come detto all’inizio, ha precise radici storiche e sulle quali mi sembra poco proficuo ritornare. Trovo, indubbiamente, molto più interessante constatare come questo “bestiario” si presti a trattazioni ampie, metafore esplicite, riflessioni anche profonde.

Il vampiro è l’archetipo di tutte le aberrazioni dell’immaginario horror.

L’horror è popolato da creature terribili che vivono nell’oscurità e che perseguitano i mortali per “stillare” dai loro fragili corpi la vita, prassi che in qualche modo prolunga all’infinito la loro esistenza oppure è lo scopo che ne determina l’esistenza. Le bare, all’interno delle quali i vampiri rifuggono i raggi solari, costituiscono un feticcio esplicito: morte, decadenza, non vita.

Negli ultimi anni, dopo un meritato periodo di torpore mediatico, i vampiri sono tornati prepotentemente alla ribalta. Le librerie, le televisioni ed i grandi schermi “grondano” (letteralmente) di decine di migliaia di volumi in cui bamboccioni pallidi, dai canini troppo poco appuntiti, scorrazzano al crepuscolo, frequentano licei durante le ore diurne e combattono contro licantropi palestratissimi, unti e tatuati.

Qualcuno potrebbe, dunque, additarmi come un detrattore invidioso della fortuna di saghe come quella di Twilight, in realtà credo che l’operazione (commerciale) di edulcorare l’orrore, rendendola una parodia pallida per adolescenti armati di smartphone, non sia lo strumento più corretto per catechizzare le masse.

Additare un certo tipo di cinema o di produzione mediatica come veicolo di violenza, efferatezza è una goffa convinzione ed un modo, c

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omodo, per una società “malata” di scaricare ogni responsabilità civile.

Sconfiggere ”i demoni” qualsiasi forma essi abbiano assunto nel XXI° secolo privandoli della giusta componente di paura, emozione legata all’istinto, di cui sono “portatori sani” né esorcizza né elimina il male o la percezione che abbiamo di esso.

Le creature “mostruose” che popolano gli incubi, le leggende, le fiabe, i romanzi, i film, i videogiochi, sono necessari vettori, sono una palestra importante per l’immaginazione e per l’istinto. Poiché avere paura significa essere consapevoli dei propri limiti e dunque favorisce la ”sopravvivenza”.

Chiuderei questa pseudo dissertazione filosofica con Mary Shelly e l’incipit del suo Frankenstein come una sorta di monito:

 “Mi ingegnai di inventare una storia che sapesse parlare alle paure più misteriose della natura umana. Risvegliando in essa il fremito dell’orrore. Una storia che inducesse il lettore a tremare nel guardarsi intorno… che gelasse il sangue e gli accelerasse i battiti del cuore”.